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TURISTA PER CASO
(THE ACCIDENTAL TOURIST)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 11 maggio 1989
 
di Lawrence Kasdan, con William Hurt, Kathleen Turner, Geena Davis (Stati Uniti, 1989)
C'è un modo, come tutti sanno, di dire fra le righe.

Che è poi un modo di dire e non dire, di dire senza averne l'aria, di dire le cose che importano senza bisogno di metterle nero sul bianco, o di dire quelle che meno importano, quando si sa invece che sono più importanti di quelle che si è costretti a dire.

Un modo, insomma, di far viaggiare l'immaginazione di chi legge o ascolta. Magari anche oltre le proprie intenzioni; il che, oltre che dilettevole, può anche esser utile.

In cinema, con delle immagini che a prima vista sembrerebbero impedire, con il loro realismo fotografico, qualsiasi bluff, si può fare esattamente la medesima cosa. Certo, è meno facile che filmare il corteo della vendemmia, ma qualcuno come questo Lawrence Kasdan (si era già notato in BRIVIDO CALDO e IL GRANDE FREDDO) ci riesce a meraviglia.

Cosa sarebbe infatti, senza questo genere d'esercizio più o meno perverso, un film come TURISTA PER CASO? Un onesto film all'americana sulla famiglia in più, un melodramma non troppo triste perché sennò non lavora, ma di certo non proprio allegro poiché tratta di una specie di viaggiatore di commercio che ha perso, dopo la morte del figliolo e la partenza della moglie, molta della sua voglia di vivere.

William Hurt (determinante alla riuscita del discorso, non una ruga sul viso che gli compaia a caso; come pure la solita Kathleen Turner e l'oscarizzata Geena Davis) scrive guide turistiche, odiando allontanarsi da casa propria non fosse che per acquistare le sigarette: puntualmente gli arride un enorme successo editoriale, da tutta quella massa di americani che viaggia per dovere, ma preferirebbe fermarsi al Burger King più vicino.

Una contraddizione, questa del turista nato a caso, che lo governa nello spirito, ancor più che nella professione. Perché la stessa diffidenza nello spostarsi nello spazio, il protagonista la prova esistenzialmente: il suo ripiegamento su sé stesso (fino all'happy-end, a dire il vero un po' forzato) si traduce in una regressione familiare, all'interno di un curioso nucleo composto da fratelli e sorelle che rifiutano di rispondere al telefono e che ripongono le derrate alimentari nella credenza in ordine alfabetico.

Il film corre sul filo del sentimentalismo, riuscendo miracolosamente ed evitarlo: merito dell'estrema attenzione del regista non solo ai personaggi, ma ai luoghi, agli oggetti, alla filigrana di quel quotidiano che il protagonista rifiuta sempre di più.

Merito, soprattutto, di un senso istintivo del tempo cinematografico, che ricorda un po' quello celebre del grande Cassavetes. Le durate delle sequenze, come quelle degli avvenimenti all'interno delle sequenze (gli sguardi, gli spostamenti, le mimiche) è dilatato, e come diluito nel tempo.

Si diceva di Cassavetes che desse immancabilmente il "cut" di una scena con una quindicina di secondi di ritardo sulla logica: lasciando l'attore allo sbaraglio, privo del sostegno prevedibile fornito dal testo e dal mestiere, in uno squarcio di verità che egli era costretto a colmare.

In questo film di Kasdan succede qualcosa di simile: e da questa dimensione in apnea nasce una sensazione destabilizzante, quasi un malessere che colpisce lo spettatore ormai rotto ad una certa sintassi dell'immagine.

Quel malessere che, tra le righe, costituiva il vero soggetto del film.


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